Che cos’è la terapia occupazionale?
La terapia occupazionale è una professione sanitaria della riabilitazione che si occupa di aiutare le persone a svolgere le attività di tutti i giorni. In pratica, si tratta di riabilitare la persona alle proprie attività di vita quotidiana, come lavarsi, vestirsi, andare al lavoro, cucinare, fare il bucato, stirare. Tutto ciò che fa parte della giornata di una persona può essere oggetto di terapia.
A chi è rivolta la terapia occupazionale?
Principalmente, qui in San Francesco, la Terapia Occupazione si rivolge a persone che hanno avuto un evento neurologico acuto o che si trovano in una fase di cronicizzazione dopo un evento neurologico passato. Tuttavia, in una visione più ampia, la terapia occupazionale si rivolge a tutte quelle persone che hanno problemi nella partecipazione alle proprie attività. Questo include bambini in ambito neuropsichiatrico infantile, adulti con problematiche neuromotorie, anziani e anche persone in ambito psichiatrico.

Quali sono gli obiettivi principali della terapia occupazionale?
Gli obiettivi della terapia occupazionale non sono soltanto legati all’autonomia, ma anche e soprattutto alla partecipazione. La scelta degli obiettivi avviene sempre in modo condiviso con il paziente, perché devono essere significativi per lui. Non vengono mai imposti obiettivi ma sempre concordati. Ad esempio, se una persona non vuole investire le proprie energie sull’autonomia nel lavarsi e vestirsi, ma preferisce concentrarsi nel cucinare il pranzo per il marito, allora quello diventa il nostro obiettivo.
Quale è l’iter in cui viene prevista l’attività del terapista occupazionale?
Qui a San Francesco si arriva al terapista occupazionale in due modi:
- Durante il ricovero, il medico visita il paziente e definisce il Progetto Riabilitativo Individuale (PRI), in cui vengono indicate le figure sanitarie necessarie. Se viene coinvolto anche il terapista occupazionale, allora io o la mia collega facciamo una valutazione e, dopo esserci confrontate con il medico di riferimento, attiviamo il percorso terapeutico.
- Nel post-ricovero, invece, l’attivazione avviene su indicazione del medico fisiatra, che può prescrivere un percorso ambulatoriale chiamato MAC (Macro attività Ambulatoriale Complessa), coinvolgendo le figure necessarie, tra cui il terapista occupazionale.
La terapia occupazionale si svolge in sedute individuali o di gruppo?
Si tratta di sedute, paragonabili a quelle della fisioterapia o della logopedia. Possono essere individuali o di gruppo. Qui a San Francesco facciamo solo sedute individuali, mentre in altre realtà si possono organizzare anche sedute di gruppo. Naturalmente, i gruppi devono essere formati con criterio: non si può creare un gruppo di cucito se metà delle persone coinvolte non è interessata al cucito. Inoltre, si deve tener conto di abilità fisiche, cognitive e relazionali, ma non è sempre necessario che siano omogenee. A volte, ad esempio, il più abile può aiutare il meno abile, creando dinamiche di supporto reciproco. La seduta individuale ha chiaramente il vantaggio di essere molto più individualizzata e molto più personalizzata, quindi adatta e adattata al paziente.
Quali sono le sfide principali della vostra professione?
La sfida principale della terapia occupazionale, in Italia, è far capire cosa sia e cosa faccia questa figura professionale. Essendo una professione sanitaria relativamente nuova nel nostro Paese, spesso capita di dover spiegare il nostro ruolo sia ai pazienti che ai caregiver. In molti pensano che basti la fisioterapia, perché nella cultura italiana la riabilitazione è spesso associata solo al recupero motorio. In realtà, la riabilitazione è un lavoro di équipe, con diverse figure professionali che collaborano per il benessere del paziente.
Con quali professionisti collabori nel tuo lavoro?
Faccio parte di un’équipe riabilitativa che include il medico fisiatra, il personale assistenziale (infermieri e OSS), e le altre professioni sanitarie riabilitative, come fisioterapisti, logopedisti e psicologi. Inoltre, lavoriamo con nutrizionisti e altre figure specialistiche, a seconda delle necessità del paziente. Il fatto di essere in una struttura come San Francesco, che è una via di mezzo tra un ambulatorio singolo e un grande ospedale, ci permette di offrire un approccio multidisciplinare, ma senza la dispersione tipica delle grandi strutture.
Quali strumenti e tecniche vengono utilizzati nella terapia occupazionale?
Esistono diversi modelli teorici di terapia occupazionale. Uno dei più diffusi è il MOHO (Modello di Occupazione Umana), che ha come strumento pratico l’OPHI-II (Occupational Performance History Interview). Si tratta di un’intervista semi strutturata che aiuta a conoscere la storia occupazionale del paziente e le sue attività. Oltre a questo, utilizziamo strategie adattative e piccoli ausili per aiutare le persone a svolgere le attività quotidiane. Ad esempio, per abbottonare i bottoni di una camicia nel caso di difficoltà motorie alle mani possiamo suggerire di cambiare il modo in cui si allacciano i bottoni oppure di usare un ausilio chiamato infilabottoni. Il nostro obiettivo è trovare soluzioni personalizzate, lavorando sia sulle capacità della persona sia sull’ambiente in cui vive.
Un esempio concreto di terapia occupazionale?
Certo. Poniamo il caso di una persona che ha difficoltà a vestirsi a causa di un ictus, in particolare a infilare i pantaloni. In questo caso, lavoriamo insieme su diverse strategie per riuscire a infilarli. Se l’obiettivo del paziente è cucinare, invece, possiamo allenarci nel tagliare le verdure in sicurezza, trovare utensili più adatti o organizzare meglio il piano di lavoro per facilitare i movimenti. L’importante è che il paziente si senta coinvolto e motivato nel raggiungere il suo obiettivo.
Quindi la terapia occupazionale si basa sulle esigenze specifiche del paziente?
Esattamente. Non lavoriamo sulla patologia in sé, ma sugli effetti che ha sulla vita quotidiana della persona. Se una persona ha una patologia ma riesce a gestire la propria routine senza difficoltà e si sente soddisfatta, non ha bisogno di terapia occupazionale. Ma se ha difficoltà a svolgere attività che per lui sono importanti, allora interveniamo per aiutarlo a riconquistare indipendenza e partecipazione.
Un esempio di obiettivo potrebbe essere riuscire ad abbottonarsi la camicia da solo per andare al lavoro senza dipendere dal coniuge. Per raggiungere questi obiettivi, ci si esercita con attività mirate, cercando di svolgerle direttamente quando possibile. Se necessario, si apportano modifiche al modo in cui vengono eseguite o si introducono strumenti di supporto. A volte, oggetti di uso quotidiano possono trasformarsi in ausili utili. Ad esempio, una semplice clip da ufficio, solitamente usata per raccogliere fogli, può diventare un valido aiuto per abbottonare una camicia nel caso di difficoltà manuali. È importante sottolineare che strategie e ausili vengono presi in considerazione solo dopo aver escluso un recupero spontaneo e completo delle capacità motorie o cognitive. Se, ad esempio, durante un periodo di riabilitazione la manualità di una persona migliora al punto da permetterle di svolgere le attività senza difficoltà, non sarà necessario ricorrere a strategie o ausili.
La storia di un paziente di un paziente in San Francesco?
Bruno ha una patologia degenerativa, il che significa che nel tempo le sue capacità motorie tenderanno a peggiorare, anche se l’entità e la velocità del declino sono incerte. Già ora manifesta difficoltà sia agli arti inferiori che superiori, in particolare nella mobilità delle dita e delle mani.
Poiché la sua condizione è degenerativa, il recupero non è un obiettivo primario. Piuttosto, ci si concentra su come ridurre la fatica nello svolgere le attività quotidiane e su come mantenere il massimo grado di autonomia possibile. Dopo un’analisi delle sue attività e capacità, abbiamo individuato gli obiettivi su cui lavorare e li abbiamo affrontati uno per volta.
Alla presa in carico Bruno era già autonomo nell’indossare e togliere vestiti come magliette, felpe, giacche, pantaloni, calzini e scarpe. Tuttavia, aveva difficoltà in attività che richiedono una maggiore precisione manuale, come allacciare bottoni, chiudere cerniere lampo e annodare le stringhe delle scarpe.
Abbiamo quindi sperimentato alcuni adattamenti e strategie. Per i bottoni, ad esempio, abbiamo testato l’infila-bottoni, un ausilio pratico da usare in ambiente domestico. Tuttavia, poiché in ufficio non avrebbe potuto portarlo sempre con sé, abbiamo provato l’uso della clip da ufficio come soluzione alternativa. O anche le cerniere lampo: la difficoltà principale era afferrare il cursore. Aggiungendo un piccolo cordino al foro del cursore, Bruno è riuscito a chiudere e aprire le cerniere semplicemente infilando un dito nel cordino e tirando. Invece per le stringhe delle scarpe abbiamo provato un metodo alternativo per allacciarle con meno passaggi e minore sforzo. Un’altra soluzione efficace è stata l’uso dei fermalacci a molla, dispositivi che permettono di stringere e allentare le stringhe senza doverle annodare.
L’aspetto più importante di questo percorso è che non si tratta di un semplice “riesco o non riesco”, ma di trovare modi diversi per svolgere la stessa attività. La persona può scegliere quale strategia adottare o persino decidere di non usarne nessuna, mantenendo sempre il controllo sulla propria autonomia.
Nel caso di Bruno, il processo è stato particolarmente significativo: non solo era molto motivato, ma ha capito subito che questi adattamenti gli avrebbero permesso di ridurre notevolmente la fatica quotidiana, migliorando la sua qualità di vita.
Poi con Bruno abbiamo lavorato sul tenere il gesso, dal momento che lui è un insegnante, includendo nel percorso l’attività lavorativa. Per chi fa fatica a impugnare cose piccole è molto difficile. Gli abbiamo suggerito un porta gesso, una prolunga che aiuta l’impugnatura. Nel suo caso l’abbiamo anche ingrandito per facilitare ancora di più la presa.
Infine, abbiamo lavorato anche sul cucinare, perché a lui piace molto. Con la sua difficoltà nel tenere posate e ingredienti mentre si tagliano risultava molto difficile. Anche in questo caso sono state suggerite e provate posate con manico adattato. Per lui l’attività di cucina fa parte delle attività del tempo libero.
Come si diventa Terapista Occupazionale?
Si tratta di una professione sanitaria nella classe della riabilitazione. È un percorso di tre anni, con un test di ammissione. Finito il percorso, dopo la discussione della tesi e l’esame di stato, si ottiene un titolo abilitante all’esercizio della professione. La formazione è sia teorica che pratica. Ci sono insegnamenti su materie sanitarie, ma anche materie umanistiche perché si ha anche a che fare con l’ambito psicologico e sociale oltre che la formazione specifica sulla terapia occupazionale. Dopo l’iscrizione all’albo è possibile iniziare a lavorare in ospedale, al domicilio in RSA, nella neuropsichiatria infantile, la psichiatria ma anche fuori dall’ambito clinico (ad esempio nelle scuole o nelle carceri, ovunque ci sia una compromissione della partecipazione alle proprie attività.
Io sono molto contenta del mio lavoro, ci sono tante soddisfazioni: quando il paziente ti ringrazia perché riesce ad allacciarsi la camicia, ecco capisci che sei utile. È un lavoro molto vario, in una giornata puoi cucinare un tiramisù come piantare una pianta!