di don Alberto Monaci
Si celebra domani in tutto il mondo la 32a Giornata del malato: un momento di riflessione e di preghiera per i milioni di persone che soffrono per una malattia del corpo o della mente, un’occasione per stare loro vicini, e per sostenere anche chi si occupa di loro. Perché la vicinanza è una cura importante. A Bergamo, la celebrazione diocesana si terrà all’ospedale Papa Giovanni XXIII domani alle 20,30 con una fiaccolata intorno all’ospedale recitando il Rosario, concludendosi poi con un momento di adorazione in Chiesa.
In una provvidenziale coincidenza due versetti della Scrittura accompagnano la prossima Giornata mondiale del malato che si celebra domenica 11 febbraio, sostenendosi e facendosi eco l’un l’altro. Il primo, dal Vangelo di Giovanni e indicato dai Vescovi italiani: «Signore, non ho nessuno che mi immerga nella piscina» (Gv 5,7) è rilanciato da Papa Francesco che fa ruotare il suo messaggio attorno a una citazione di Genesi: «Non è bene che l’uomo sia solo» (Gen 2,18).
Tra gli «effetti collaterali» più devastanti che la malattia soprattutto se grave e prolungata porta con sé, vi è quello del rarefarsi delle relazioni: la vita fino a poco prima immersa in una serie di amicizie, affetti, legami, interessi si trova progressivamente e velocemente avvolta da una coltre grigia di solitudine che rende ancora più insopportabile la sofferenza fisica e difficile la ricerca di un suo possibile significato. Se l’isolamento ha raggiunto drammaticamente il suo apice durante i mesi della pandemia, è illusorio e pericoloso pensare che la progressiva riapertura della possibilità di fare visita alle persone malate abbia automaticamente invertito una tendenza i cui segnali erano ben presenti già prima di quell’evento. Con tono amaro mi confidava l’operatrice di una Rsa: «Guarda che non è che prima del lockdown le persone facessero a gara per veni- re a trovare i parenti. Qualcuno qui non vedeva nessuno per mesi anche prima del Covid».
Il messaggio del Papa ci rag giunge come una provocazione forte e diretta: «La prima cura di cui abbiamo bisogno nella malattia è la vicinanza piena di compassione e tenerezza. Per questo prendersi cura del malato significa anzitutto prendersi cura delle sue relazioni». Queste parole ci ricordano che se per ogni malato è fondamentale la relazione di cura che si instaura con le figure professionali che la garantiscono, è altrettanto indispensabile la cura delle relazioni perché il malato possa godere di tutti quei legami che gli permettono di abitare quel tempo non come vicenda di abbandono, ma di rinnovata esperienza di tenuta dei legami che sfidano il male che nella malattia si manifesta.
Ogni persona provata dalla sofferenza fa risuonare in forma di appello e di protesta quanto consegnato da Genesi: «Non è bene che io rimanga solo»; «Non è cristianamente giusto né umanamente sostenibile che io sia lasciata sola»; «Non lasciatemi solo!» ed è molto bello che nel suo messaggio il Papa inviti ogni persona a non vergognarsi di far risuonare il suo desiderio di vicinanza e tenerezza. L’intera comunità cristiana è invitata a non rimanere indifferente a questa chiamata riscoprendo i tanti modi attraverso cui si può esprimere una risposta a questo desiderio, a partire dalla pratica della «visita agli ammalati». Il servizio preziosissimo, a fianco dei sacerdoti e diaconi, dei ministri straordinari dell’Eucarestia di cui la nostra Chiesa è ricca, lungi dal favorire la logica della delega, dovrebbe essere segno e stimolo per tutti i battezzati a garantire il «servizio della presenza»: come potremmo infatti da cristiani annunciare la vicinanza di Dio tenendoci a distanza? Si tratta di un modo ordinario e possibile a molti di esercitare la prossimità e la cura verso le persone che vivono la fatica della malattia, rendendo «vivo» il mistero dell’Eucarestia celebrato. Abitare la sofferenza è un modo privilegiato di testimonianza della carità del Vangelo che deve interpellare di più le nostre comunità. Rispondere al bisogno di rela- zione che ogni malato esprime non solo umanizza lui, non solo apre possibilità di umanizzare le cure e «i curanti», ma segna anche l’umanità di chi accetta la sfida di rallentare non scappando davanti alle domande di senso che questa condizione fa risuonare: «La condizione di malattia invita tutti a frenare i ritmi esaspera- ti in cui siamo immersi e a ritrovare noi stessi» (Papa Francesco).
In questa domenica portiamo nella preghiera grata le tantissime persone che ogni giorno operano con generosità e spesso in condizioni difficili e poco riconosciute a favore della vita dei malati, affidiamo con intensità a Maria tutti coloro che vivono nella sofferenza e chiediamo a lei che ci insegni a divenire «artigiani di vicinanza».